Tra tutte le pore anime che ho incontrato in queste passeggiate notturne, una tra tutte m’è rimasta proprio impressa. Me ricordo che provai così tanta pena ner senti’ la sua storia che, la matina dopo, la raccontai a mi’ moje che se mise a piagne insieme a me.
Era una sera de primavera, maggio, se nun me ricordo male. Sì, era proprio maggio perché er profumo delle siepi de gelsomino, che stanno dietro a Palazzo Farnese, in quer mese riempiono l’aria e te fanno venì la voja de annattene in giro invece de rinchiudete dentro casa.
Sarà stato verso mezzanotte, m’ero fermato a beve ar nasone a via della Moretta, là dove se incrocia co’ via dei Banchi Vecchi. Avevo magnato un po’ salato e c’avevo ‘n’arsura che nun te dico. Quann’ecco che, riarzando la testa, me trovo de fronte ‘na regazza. Bella, ma che te dico, bella come ne ho viste poche. Dato che nun era Carnevale, dar vestito de n’artra epoca ho capito subito che stavo a fa’ ‘nantro incontro dei miei.
«Bona sera signorì» je dissi pe’ fa’ l’educato.
«Buonasera a voi signore» me rispose tutta compita, «Ma… voi non mi sembrate far parte, come dire, della nostra sponda», squadrandome dalla testa ai piedi un po’ perplessa.
«Ho capito che volete di’, no nun so’ morto, so’ vivo e vegeto, però ve vedo e ve sento lo stesso, che ce volete fa’ c’ho ‘sta dote» je risposi allargando le braccia.
«È molto strano tutto ciò, è la prima volta che mi capita. Senza offesa, da come parlate mi sembrate un uomo del popolo, non è vero?» me chiese incuriosita.
«Sì signorì, faccio lo stagnaro, mica me vergono a dillo, e voi, di grazia, chi sareste?»
«Il mio nome è Beatrice, abitavo proprio qui vicino, o meglio, questa era casa di quel maledetto di mio padre» e dicendo ‘ste parole se fece scura in volto e arzò l’occhi verso le finestre de un palazzetto che sta proprio lì de fronte.
«È lì dentro che ho dovuto patire tutte le angherie e i soprusi che furono la dannazione della mia esistenza» continuò.
«Addirittura, “maledetto”? E che ve po’ ave’ fatto vostro padre pe’ merita’ ‘sto trattamento?»
«Vedete, io appartenevo a una nobile famiglia romana. Mio padre fu Francesco Cenci, l’ultimo esponente di una tra le più ricche ed influenti famiglie di Roma. Lui sposò mia madre, Ersilia Santacroce, dalla quale ebbe diversi figli: Antonina, Giacomo, Cristoforo, Rocco, Bernardo e me. Francesco, mio padre, era rissoso e violento, per i guai che combinava si vide costretto a vivere nella Rocca di Petrella Salto. Ma anche lì diede dimostrazione della sua cattiveria. Fece rapire una ragazza del paese lì vicino, che si chiamava Annetta e, siccome lei si rifiutò di accettare le sue luride proposte, la fece uccidere dai suoi sgherri».
«Accidenti che disgraziato!» La interruppi.
«E sì, era proprio un disgraziato, malvagio. Ma non furono queste le cose peggiori che fece» seguitò la ragazza, «Potemmo tornare a Roma solo quando morì Papa Sisto V, e lui continuò a comportarsi sempre peggio. A casa trattava tutti male e lo so io cosa fece passare anche ai miei disgraziatissimi fratelli. Poi si invaghì di quella lì e non capì più nulla. Si chiamava Lucrezia Petroni, e noi figli siamo certi che fu lui a uccidere nostra madre per sposare quella scellerata. Ci dovemmo rivolgere al Papa per vedere riconosciuti i nostri diritti. Ma è qui che iniziò tutto lo schifo che mi porto addosso e che mi fa vergognare di essere esistita. La situazione precipitò in breve tempo. Fu arrestato perché fece delle azioni immonde a danno di una povera sciagurata, e fu costretto a pagare una forte ammenda per essere scarcerato e scagionato dalla terribile ed infamante imputazione, gettando il disonore su tutta la famiglia. Rocco e Cristoforo, i miei fratelli più grandi vennero uccisi nel corso di violente liti, mentre Giacomo si sposò con una donna dalla quale ebbe anche figli. Io in quel periodo stavo crescendo e, per mia disgrazia, ero veramente bella. Così, quel lurido essere, iniziò a interessarsi a me non più come figlia ma con ben più luridi fini. Persino la mia matrigna Lucrezia si mosse a compassione. Al fine di sottrarmi alla sua lussuria, introdusse in casa monsignor Guerra, un giovane avviato alla carriera ecclesiastica e addetto alla Corte del Papa, nella speranza di darmi in sposa. Ma le persone malvage hanno spesso un sesto senso che li guida e costrinse sua moglie Lucrezia e me a seguirlo per la Rocca di Petrella dove ci rinchiuse per interminabili giorni. Penso ancora all’orrore delle sue visite notturne e alle volte che pensai di uccidermi per poter porre fine a quella tortura. Scrissi a Monsignor Guerra e a mio fratello Giacomo chiedendo inutilmente aiuto.
Molte persone cercarono di ucciderlo per la sua malvagità e alla fine dei sicari ci riuscirono.
Lo trovarono nel fossato del castello ma non so chi, tra i tanti che aveva offeso, compì quel terribile atto. Confesso che, per me, fu un’autentica liberazione. Tornammo a Roma e tutto sembrava, finalmente, andare verso la normalità, nessuno immaginava che quello fosse l’inizio della fine. Ci accusarono dell’omicidio di mio padre e rinchiusero me, e quello che restava della mia famiglia a Castel S. Angelo.
Giacomo, Bernardo e Lucrezia vennero sottoposti alla tortura della corda, confessarono il delitto, accusando me come principale responsabile dell’omicidio di mio padre. Ma non nutro risentimento e rancore verso di loro, non tutti i cuori hanno la forza di resistere a simil tortura. Anche io venni torturata, ma il mio spirito era sincero e non avevo nulla da confessare. Il giudice Moscati si convinse della mia innocenza e fece un rapporto benevolo al Papa. Ma Clemente VIII, che Dio lo perdoni, non fu di questa opinione. Odiava la nostra famiglia e non vedeva l’ora di impossessarsi delle nostre terre.
Le confiscò e ordinò che fossimo tutti squartati, senza neanche un processo, ma poi, condotto a più miti consigli, ordinò che questo fosse effettuato, ma fu tutta una farsa. Durante il processo il nostro avvocato difensore, che si chiamava Prospero Farinacci, accusò mio padre dell’orrendo delitto di cui si era macchiato nei miei confronti ma fummo comunque giudicati colpevoli e condannati: alla decapitazione io e Lucrezia, allo squartamento Giacomo. Soltanto Bernardo, per la sua giovane età, ebbe salva la vita, anche se fu costretto ad assistere alla condanna.
L’11 settembre 1599 ci portarono tutti in corteo per le strade di Roma che erano piene di gente. Berardo venne condotto sul palco, ignaro del suo destino era convinto fino all’ultimo momento che sarebbe stato giustiziato anche lui. La prima fu Lucrezia, un colpo di spada le tagliò di netto la testa. Il popolo credeva alla nostra innocenza e conosceva le malvagità di mio padre. Per questo, dopo la prima esecuzione, scoppio una vera sommossa e le guardie del Papa faticarono non poco per far tornare la calma. Fu così il mio turno. Al carnefice che mi venne incontro, dissi: “Lega questo corpo ma spicciati a sciogliere quest’anima che deve giungere all’immortalità ed alla eterna gloria” ma lui non ebbe il coraggio di toccarmi. Salii sul palco che si era fatto un profondo silenzio, mi avvicinai al ceppo, da sola collocai la testa e da sola mi tolsi il velo dal collo, attendendo il colpo fatale, gridai “Gesù e Maria” e poi calarono le tenebre».
Terminato ‘sto terribile racconto Beatrice mise il viso tra mani.
Io ero sconvorto e m’appoggiai al muro de un palazzo lì vicino perché le gambe me tremavano per l’emozione. Volevo di’ quarcosa, consolarla, ma le parole nun me uscivano de bocca. Anche pe’ me, che ne avevo viste tante, ‘sta storia era troppo, troppo orribile.
«Signorì, me dispiace, nun ve volevo rida’ tanto dolore» cercai de dille, «Avevo sentito la vostra storia ma nun immaginavo che ce fosse tanta cattiveria, in fondo sete ‘na regazzina, ma come se fa a esse così infami?!»
«Non vi preoccupate, non è colpa vostra, sono io che ho compassione di me stessa ogni volta che ripenso alla mia vita, a come non ebbi la gioia di una gioventù spensierata e piena di amore. Ma la cosa che più mi rattrista sono le tante fanciulle che ancora, nel mondo, devono subire la mia stessa sorte. Nulla è cambiato in tutti questi secoli, nulla avete imparato. Le famiglie ancora troppo spesso, sono gabbie senza sbarre per mogli e figlie, vittime di bruti violenti. Troppo spesso, chi dice di amarti, è il tuo carceriere e il tuo persecutore»
«Ma no, Beatrice, ‘jelo giuro, io nun ho mai arzato le mani su nessuno, figurateve su mi moje» me affrettai a dije.
«Lo so, voi siete un uomo buono. Vedete, un vantaggio di stare da quest’altra parte è proprio quello di riuscire a leggere nell’animo di voi che siete nel mondo dei viventi, ma vi assicuro che non tutti sono così».
Detto questo me vortò le spalle e se incamminò verso Lungo Tevere. Io je volevo ancora di’ quarcosa ma lei continuò a cammina’ senza risponne. Allora me misi a seguilla.
Imboccò er Ponte de Castel Sant’Angelo, e a vedella passa’ in mezzo a quelle due file de angeli benedetti me sembrò una de loro. Ma bastò un attimo de distrazione e nun la vidi più, sparita.
Ce rimasi male, quell’incontro m’aveva lasciato n’amarezza che nun ve dico e nun me la sentivo de falla annà via così. Poi, arzai l’occhi verso Castello e la vidi, là, sulle mura, che guardava verso er fiume abbracciando con lo sguardo ‘sta bella città eterna.
All’orizzonte se stava a fa un po’ de chiarore, ‘n’antra notte era passata e s’era fatta ora de torna’ a casa. Entrai in camera da letto e vidi mi moje che dormiva. Pensai: “Ma come se fà a far del male a ‘na persona a cui voi bene? na cosa che c’è sempre stata tra noi è stato er rispetto, dar primo giorno che se semo visti. Ancora me lo ricordo, era ‘na sera d’estate, se ballava in piazza a Campo de Fiori, stava co’ n’amica sua, je chiesi se voleva ballà e la presi per mano, da allora nun je lo più lascata. Nun sarei capace de vedella soffrì, piuttosto io!” La baciai sulla fronte, facenno piano pe’ nun svejalla, e me sdraiai vicino a lei pe’ guardalla mentre dormiva. Doppo tanti anni era ancora bella, armeno all’occhi mia, je dissi piano piano, sottovoce:
«Dormi amore mio, dormi, che er monno fori è brutto e fa paura. Noi semo gente semplice, nun potemo capì er disegno dei potenti. Semo carne da macello quanno c’è d’annà in guera e semo bestie da soma quanno è tempo de pace. Er popolo…, er popolo segue la pagnotta, je piacerebbe da comannà ma nun c’ha li requisiti, nun è capace d’esse na cosa sola. Basta che ariva un fregnone qualunque che je promette mari e monti e lui je va dietro, che ce voi fa. Dormi, dormi ch’è mejo, ma sta tranquilla, perché vicino a te ce starò sempre io».
F.L.