In questi giorni di guerra in Europa, i cui si è ricominciato a parlare di conflitto nucleare con ignoranza e superficialità, mi è tornato in mente Claude Eatherly il pilota che partecipò al bombardamento atomico su Hiroshima, il 6 agosto 1945. Dopo la missione su Hiroshima Eatherly chiese di andare in congedo, era rimasto sconvolto da quello che aveva visto. Tornò nel Texas ma le sue condizioni psichiche peggiorarono sempre più. Dopo quattro anni, nel 1950, i familiari lo convinsero a ricoverarsi nell’ospedale psichiatrico di Waco.
Lì iniziò il suo carteggio con Günther Anders, grande filosofo tedesco che dedicò tutta la vita a lottare contro gli orrori di Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki affinché non potessero ripetersi mai più. Anders consigliò ad Eatherly di manifestare il suo pentimento nel Giorno della Memoria ad Hiroshima, facendo giungere una lettera di partecipazione entro il 6 agosto 1960. La risposta nobilissima dei cittadini di Hiroshima fu che anche lui era stato una vittima della bomba. Da quel giorno Eatherly iniziò una nuova vita, sebbene restando in ospedale, dove morì qualche anno dopo. Dopo quell’esperienza Günther Anders scrisse il libro Der Mann auf der Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso in Italia con il titolo “Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki”. Ha scritto Anders: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo».
Ma altri piloti invece non si pentirono. È il caso di Tibbets che lanciò la bomba su Hiroshima. Il suo sconcertante commento fu: «Personalmente non ho rimorsi. Mi fu detto – come si ordina a un soldato – di fare una certa cosa. E non parlatemi del numero delle persone uccise. Non sono stato io a volere la morte di nessuno. Guardiamo in faccia alla realtà: quando si combatte, si combatte per vincere, usando tutti i metodi a disposizione. Non mi posi un problema morale: feci quello che mi avevano ordinato di fare. Nelle stesse condizioni lo rifarei».
A leggere le sue affermazioni viene alla mente il precetto fascista, l’imperativo categorico: “Credere, obbedire, combattere”. A questo proposito invito alla lettura della lettera, inviata come memoria difensiva, scritta da Don Lorenzo Milani ai Cappellani Militari e ai giudici nel processo che lo vedeva imputato. Riporto alcuni passi ma si può trovare il testo integrale in rete:
“A Norimberga son stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini considerano superiore. Una parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell’una né nell’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca. E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand’era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora).[…]
Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori. Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza. A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.”
Lorenzo Milani, Lettera ai giudici, 1965.
Davanti a questa umanità perduta si ha solo voglia di piangere fino a sfinirsi…lasciarsi morire di amarezza e delusione e vergogna. ” I valori del potere e del denaro ” che da sempre contraddistinguono le nostre società sono privi ormai da tempo del più semplice dei sentimenti…il pudore. Masse infinite di esseri troppo poveri per permettersi il lusso di pensare soggiogate da una minoranza di malati mentali ubriachi di violenza. Spesso guardando il mio gatto provo vergogna della mia stupidità e gli chiedo scusa per ciò che stiamo facendo. Resta solo il sogno come rifugio, il sogno di un semino nascosto in una zolla di terra nascosta chissà dove che possa un giorno dare vita ad una nuova umanità più consapevole del fatto che tutto e tutti siamo parte dello stesso corpo, tutte molecole di un
meraviglioso mondo in cui ognuno ha bisogno dall’abbraccio dell’altro. Perdonate queste mie parole ma non sono in grado di pensare altro…
Più leggo i commenti al post di Facebook, più mi rendo conto del divario mostruoso che esiste, tra le persone, di sensibilità, di intelligenza e, conseguentemente, di capacità di analisi di un fenomeno. E questo, spesso, non dipende dal livello di istruzione che si è raggiunto o dal contesto sociale a cui si appartiene. Forse è sempre stato così ma non ce ne rendevamo conto e il web ha portato alla luce tulla la melma che era nel fondo del mare (umano). O forse il livello di superficialità generalizzata che abbiamo raggiunto è il frutto della malsana crescita della nostra società. Caro Carlo, mi dispiace, ma temo che il tuo mondo ideale sia un’utopia che non avremo mai la fortuna di vedere e che certamente non vedranno i nostri figli. Per dirla alla Proietti “L’omo novo nun è nato!”