Berlino, autunno del 1998.
Quella mattina Annette non aveva proprio voglia di andare allo studio. Due progetti da consegnare, ma quel cielo azzurro e quell’aria fresca settembrina invitavano proprio ad uscire. Amelie era andata al Conservatorio a salutare i suoi compagni di corso. Si era diplomata pochi giorni prima e ora l’attendeva un lungo periodo di tirocinio per essere ammessa alla scuola di Specializzazione post-laurea e, certamente, non sarebbe tornata per pranzo. Non era frequente vedere giornate così a Berlino e sarebbe stato proprio un peccato passarla curva su di un computer, a disegnare gli interni di un appartamento di qualche borghese benestante. Prese il soprabito e uscì di casa senza pensarci due volte inoltrandosi tra le strette strade della città vecchia dell’ex Berlino Est.
L’atmosfera particolare che si respirava in quelle strade, piene di locali e botteghe, avvolgeva e dava la sensazione di viaggiare nel tempo. Arrivò al “quartiere ebraico”, passò in quei cortili pieni di arte e di colori lasciandosi alle spalle le strade pulite ed eleganti e le facciate di vetro degli uffici, per entrare in un luogo rimasto come era 30 anni prima. Si fermò davanti alla vetrina di un artigiano che vendeva strumenti musicali. La bottega del liutaio è sempre affascinante ed è rimasta identica nel tempo, come una finestra sul passato; racchiude una tradizione secolare fatta di una tecnica di costruzione immutata, di essenze di legno pregiato, di resine naturali, di attrezzi tipici per realizzare violini, viole o violoncelli. Oltre a questi strumenti si intravedevano, all’interno del locale, anche dei vecchi pianoforti impolverati. Alcuni erano smontati e lasciavano scoperti i telai di ghisa. Fu attirata da un pianoforte verticale in radica di noce, che stava addossato alla parete di fondo. Anche se era coperto di polvere e ragnatele, si vedeva la bellissima trama del legno e le modanature molto rifinite. Decise di entrare per guardare più da vicino quello che sembrava essere un capolavoro di ebanisteria.
Quando aprì la porta a vetri della bottega, un sonaglio, fatto con pendagli tubolari di metallo, rivelò il suo ingresso. Le venne incontro un omino piccolo e ingobbito, che poco prima era intento a sciogliere della colla in un crogiolo scaldato da una piccola piastra elettrica. Aveva il capo coperto con la classica kippah ebraica e un camice nero che arrivava quasi fino ai piedi.
– Buongiorno signora, in cosa posso servirla? – chiese con un filo di voce.
– Ero entrata per vedere quel pianoforte lì in fondo – rispose Annette indicandolo.
– Vedo che se ne intende, è un pianoforte Wilhelm Spaethe costruito a Gera, risalente a circa metà del XIX secolo, interamente in radica di noce. Purtroppo, le persone lo vedono così, un po’ malconcio, non si rendono conto della bellezza e del suono caldo che questi pianoforti possono dare. Proprio alcuni giorni fa avevo iniziato ad accordarlo, sa questi pianoforti, che hanno più di un secolo, vanno trattati con cura e l’accordatura va fatta in modo graduale per non sollecitare troppo bruscamente la meccanica. Ora è almeno mezzo tono sotto alla tonalità standard, praticamente alla tonalità a cui suonava Mozart. Vede, la musica, negli ultimi secoli, ha attraversato periodi di profonde trasformazioni proprio per merito della ricerca in campo costruttivo ed esecutivo da parte di compositori, interpreti, teorici e costruttori di strumenti musicali; essi a partire dal XVII secolo, seguendo le trasformazioni politiche, sociali e di costume delle varie epoche, hanno contribuito alla evoluzione culturale e, nel nostro caso, alla evoluzione tecnologica del pianoforte. Certamente un pianoforte di recente costruzione risponde meglio ai requisiti necessari a uno studente, ma le note prodotte da questo pianoforte hanno una caratteristica timbrica che va diretta all’anima. Senta…-
E, sedutosi davanti allo strumento, iniziò a suonare. Era “Claire de lune” di Debussy. Le note riempirono l’aria di quella piccola bottega, facendo risuonare le casse armoniche dei violini e dei violoncelli appesi alla parete, sembrava che un’intera orchestra stesse accompagnando il canto dolcissimo di quel pianoforte. Annette venne avvolta da quel suono come fosse un velo di seta; pensò ad Amelie, a tutti i sacrifici che aveva fatto per fare il Conservatorio, alle tante ore di studio che aveva speso sui tasti del pianoforte, invece di andare fuori con i suoi amici, ai momenti difficili e alle frustrazioni che aveva dovuto superare, già alla sua giovane età, quando non riusciva ad arrivare ai risultati attesi dagli insegnanti; ricordò tutto questo e, in un attimo, senza pensarci due volte, disse:
– Quanto costa questo pianoforte? Posso pagarglielo a rate? –
La trattativa non fu facile perché al momento di stabilire il prezzo, l’ometto tirò fuori una insospettata energia e tutta l’astuzia di un venditore esperto. Ma Annette era determinata a fare quel regalo a sua figlia, anche se il costo era un po’ al di sopra delle sue possibilità economiche, per testimoniarle tutto l’affetto, il rispetto per le sue scelte e l’ammirazione per i risultati che aveva ottenuto. Alla fine, dopo una serrata trattativa, riuscì a spuntarla e ad aggiudicarsi il pianoforte, dovendo però sopportare i lamenti del povero liutaio per averlo ceduto ad un prezzo a sua detta “ridicolo”. Ora avrebbe dovuto solo attendere due settimane, il tempo necessario a completare il restauro. Ritornò a casa canticchiando, soddisfatta ed emozionata per l’acquisto. Pensò che, a questo punto, vista la pazzia che aveva fatto, doveva sbrigarsi a consegnare i due lavori in sospeso.
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Quando suonò il campanello della porta disse ad Amelie:
– Vai tu ad aprire per cortesia? Sono in camera e sto finendo di vestirmi –
– Ma aspettiamo qualcuno Mamma? – chiese Amelie dirigendosi verso l’ingresso
– Forse sì – rispose Annette sorridendo tra sé e sé
Quando Amelie aprì la porta si trovò davanti due uomini in tuta da lavoro, uno alto e barbuto l’altro più basso e tracagnotto con una calvizie incipiente.
– Buongiorno signorina, è lei Amelie Weber? –
– Sì, sono io, desiderate? –
– Dobbiamo effettuare una consegna a suo nome – disse il più basso
– Consegna di cosa? Io non ho acquistato nulla – rispose perplessa Amelie
– Tu no, ma io sì – disse Annette alle sue spalle – Prego, portatelo pure su, va posizionato in quell’angolo –
– Ma cosa Mamma? –
– Aspetta e vedrai –
Abitavano al primo piano e quando sul pianerottolo comparvero i quattro facchini, che avevano sollevato e trasportato il pianoforte con delle fasce lungo la rampa di scale, per poi poggiarlo su due tavolette con rotelle, Amelie rimase senza fiato e cominciò a balbettare:
– Ma Mamma, non era necessario affittare un altro pianoforte, quello che ho ora per studiare va benissimo –
– Non è in affitto Amelie, è tuo, è il mio regalo per il diploma – disse Annette con voce rotta dall’emozione. La figlia le buttò le braccia al collo, non sapendo se ridere o piangere per la gioia.
– È bellissimo! Ma come hai fatto a pagarlo? Deve costare un patrimonio –
– Tu non ti preoccupare, te lo sei meritato. In questi anni non hai mai chiesto nulla e la musica è la tua vita, voglio che questo pianoforte resti sempre con te, anche quando, tra cento anni, io non ci sarò più –
Le interruppe il solito operaio che intanto aveva finito il lavoro:
– Bene signora, firmi qui per la consegna. Tra qualche giorno verrà l’accordatore a completare il lavoro, con il trasporto si sarà certamente un po’ scordato –
Dopo che i facchini se ne furono andati, portando via il precedente pianoforte che era in affitto, Amelie, seduta sullo sgabello, rimase a rimirarlo. Dopo il restauro era ancora più bello e imponente di prima. La radica di noce lucidata brillava, mettendo in risalto le venature del legno.
– Forza che aspetti? Suonalo – disse Annette alla figlia che non aveva ancora trovato il coraggio di toccarlo.
– Posso? – chiese Amelie, che ancora non credeva ai suoi occhi
– Certo, che aspetti, è tuo –
La ragazza aprì con delicatezza il coperchio, rimosse il panno rosso che copriva i tasti d’avorio e iniziò a suonare, prima con cautela, poi sempre più convinta. Le note riempirono la stanza. Come uno sciame di api iniziarono a volteggiare leggere, ora gravi, ora acute seguendo l’armonia sublime che Amelie faceva sprigionare da quello strumento.
– Mamma, è magnifico! Non ho mai suonato uno strumento così. Forse solo il pianoforte a coda del conservatorio ha un suono così pieno, così ricco di armoniche – disse Amelie in preda all’entusiasmo.
Poi improvvisamente toccò un tasto che fece “Clop!” Si fermò di colpo, provò di nuovo quel tasto, un do diesis della terza ottava e quello fece di nuovo “Clop, clop!”
– Deve essersi mosso qualcosa durante il trasporto – disse Amelie
– Non ti preoccupare, siamo d’accordo che verranno ad accordarlo di nuovo, dopo uno spostamento è sempre necessario – la tranquillizzò Annette
– Ma io voglio suonarlo ora, non mi va di aspettare, proviamo a vedere dentro – insisté la ragazza, e aperto lo sportello superiore iniziò a ispezionare l’interno della cassa, scese con la mano lungo la tavola armonica e, proprio sotto due ponticelli, infilato di traverso tra due corde, stava un foglio color avorio, sbiadito e chiazzato di marrone. Cercò di estrarlo con cautela per non romperlo, era fragilissimo e i bordi si sbriciolavano se tirati troppo bruscamente. Quando riuscì finalmente a disincastrarlo dalle corte, lo srotolò delicatamente. Era uno spartito per pianoforte, pieno di annotazioni, scritto a mano con una bella grafia elegante che si era molto sbiadita con il tempo, ma ancora leggibile.
– Guarda! – disse alla madre – un vecchio spartito manoscritto, doveva essere incastrato da qualche parte e si è spostato con il trasloco; strano che non se ne siano accorti quando lo hanno restaurato-
Poi, prese due mollette per i panni e, con molta delicatezza lo fissò al leggio in modo da farlo rimanere aperto e iniziò a suonare.
Una melodia dolcissima, ma intrisa di tristezza, poi un nuovo tema, sopra un accompagnamento morbidamente arpeggiato, con un crescendo pieno di enfasi che creava un’atmosfera rarefatta e suggestiva poi, fine del foglio…
Amelie rimase così, con la mano destra alzata come se attendesse le successive note e la sinistra ferma su un accordo.
– È bellissima! – disse – non l’ho mai sentita, ha un che di moderno, chissà di chi è? – esclamò Amelie.
Annette, che si era seduta su una poltroncina alle sue spalle, ascoltava muta, gli occhi un po’ arrossati per l’emozione di vedere sua figlia seduta a quel pianoforte, suonare con così tanto trasporto.
– Anche io non ho mai sentito questo brano, ma è bellissimo, va dritto allo stomaco esprime una tristezza, un’angoscia, che fa rimanere senza fiato. Già, chissà di chi è? – mormorò Annette
– Potrebbe essere di uno dei proprietari che ha avuto il pianoforte, ma poi perché infilarlo dentro la cassa? –
– Forse per non farlo trovare – rispose Amelie – Forse perché, chi lo ha composto, non voleva che i suoi contemporanei lo trovassero, è come un messaggio in una bottiglia lanciata in mare –
– Che fantasia Amelie! Figlia mia sei veramente un’artista, fantasia e immaginazione non ti mancano- rispose Annette sorridendo – Voglio chiedere al liutaio se mi sa dire qualcosa in proposito –
La mattina successiva Annette, nel fare la sua solita passeggiata, tornò al negozio dove aveva acquistato il pianoforte. L’omino era sempre lì, intento a lucidare un violino appena completato.
-Buongiorno – disse Annette mentre si sentiva il solito scampanellio della porta d’ingresso.
– Buongiorno Signora, problemi con il pianoforte? È andata bene la consegna? La prossima settimana verrà l’accordatore, come le avevo detto – rispose il liutaio
– Nessun problema, tutto benissimo, mia figlia ne è entusiasta. Volevo solo chiederle se ha notizie sui precedenti proprietari del pianoforte, una nostra curiosità ci piacerebbe conoscere la sua storia-
L’omino la guardò un po’ perplesso, non molto convinto della motivazione espressa da Annette, poi pensò che in fondo poteva essere solo una curiosità tutta femminile e rispose:
– Noi avevamo questo pianoforte da molti anni, lo avevamo acquistato da un rigattiere che ci disse che proveniva da un palazzo semidistrutto da un bombardamento nella Seconda guerra mondiale. Si trovava in un quartiere della Berlino Est, che era rimasto per molti anni nello stato in cui lo trovarono i russi al loro ingresso e solo negli anni Sessanta quell’area venne bonificata. Negli anni Trenta quella zona corrispondeva al vecchio Ghetto ebraico – disse l’omino facendosi cupo, e continuò:
– All’epoca vivevano a Berlino ben 170.000 ebrei, soprattutto qui nel ghetto ebraico di Scheunenviertel, vicino ad Alexanderplatz. La comunità ebraica aveva un peso importante nella società tedesca in molti ambiti: economico, sociale, culturale e per questo i cittadini ebrei, nel corso del tempo, la influenzarono profondamente. Poi ci fu l’avvento del nazismo e le persecuzioni contro gli ebrei sfociarono in modo disastroso nella “Notte dei Cristalli”, il pogrom organizzato tra la notte del 9 e il 10 novembre 1938. Una buona parte dei negozi ebrei di Berlino furono completamente distrutti, così come le sinagoghe incediate e più di 12.000 ebrei berlinesi furono deportati nei campi di concentramento. Dopo la guerra, dalla costruzione di quel Muro per 28 lunghi anni, la Comunità venne spezzata in due, come il Paese. La casa, dove venne trovato quel pianoforte che lei ha acquistato, era proprio qui, nella parte Est, la parte più povera – concluse il liutaio, il cui tono di voce esprimeva un sentimento di rancore mai sopito.
Annette si rese conto che l’anziano ebreo stava parlando di cose vissute in prima persona, di ferite ancora aperte della sua vita che mai si sarebbe potute rimarginare.
– Mi dispiace aver contribuito a portarle alla mente questi terribili ricordi, mi scusi, non era mia intenzione – si scusò la donna.
– Non si preoccupi, quegli anni sono impressi nella mia pelle in modo indelebile – detto questo si scoprì l’avambraccio sinistro e le mostrò un numero tatuato – Campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, negli altri campi te li cucivano sul vestito, all’altezza del petto, il colonnello Rudolf Höss pensò che fosse meglio tatuarcelo addosso. Lei capisce non si può dimenticare, è tutto qui con me, le torture, le umiliazioni, gli amici e i tuoi cari morti di stenti o di sevizie, non si può, non si può… –
Detto questo, voltò le spalle ad Annette e si diresse verso il retrobottega per continuare a lucidare il suo violino, la conversazione era terminata. Quando rientrò a casa non raccontò nulla ad Amelie della conversazione avuta con il liutaio, le disse solamente che il pianoforte era stato recuperato da un palazzo bombardato di Berlino Est. Vista la sua sensibilità, non pensava fosse il caso di angosciarla con un racconto così tragico.
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I due anni della specializzazione passarono velocemente, il concerto di fine corso era un’occasione unica per farsi conoscere perché tra il pubblico sarebbero stati presenti tanti professionisti, compositori e musicisti di fama mondiale. Amelie era sempre più brava e aveva iniziato a suonare in un quintetto con quattro suoi amici e colleghi di conservatorio. Un primo e un secondo violino, una viola e un violoncello oltre, ovviamente, il pianoforte. In pratica un quartetto d’archi con l’aggiunta di Amelie al piano. Un giorno, mentre stavano provando alcuni pezzi per il nuovo repertorio, tirò fuori dalla cartella alcuni spartiti che distribuì agli altri componenti.
– Che cosa è? – chiese Hans, il primo violino
– È l’arrangiamento per quintetto di un brano di cui non conosco la provenienza e l’autore. La partitura che avevo io era incompleta, ho composto le ultime battute e l’ho arrangiato per noi, ditemi cosa ne pensate –
Anche se un po’ perplessi, iniziarono a suonare. Non era un brano semplice e dovettero interrompere più volte per trovare il giusto equilibrio tra gli strumenti ma, alla fine, tutti rimasero entusiasti del risultato.
– Accidenti Amelie! Veramente un pezzo notevole. Ora non ti offendere, si sente che non è tutta farina del tuo sacco. Dev’essere di un musicista famoso, ma io non l’ho mai sentito, sicuramente un contemporaneo, mi ricorda un po’ Debussy, ma un po’ più crepuscolare – disse Mario, il violoncello, al termine dell’esecuzione.
– Non mi offendo, è vero, magari fossi in grado di comporre un brano simile. Non avete idea a quanti colleghi musicisti io l’abbia fatto ascoltare per trovare il compositore, nulla, nessuno l’hai mai sentito- rispose Amelie – io propongo di metterlo comunque in repertorio, ho saputo che al concerto del 6 gennaio, per i gruppi esordienti, sarà presente anche Victor Spilman. Sarà qui in Europa per dirigere i Berliner nella loro tournée di fine anno e il Direttore del Conservatorio, con cui è grandissimo amico, lo ha invitato ad ascoltare il concerto dei ”nuovi talenti”-
– Che poi saremmo anche noi! – disse Bernard, il secondo violino, scoppiando a ridere.
– Tu non prendi nulla sul serio, guarda che queste sono le occasioni migliori per farci conoscere- ribatté Amelie – Allora, lo inseriamo in repertorio per il concerto o no?-
E furono tutti d’accordo.
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La sera dell’esibizione la sala era piena in ogni ordine di posti.
La Philarmonie Berlin è la Sala concerti dell’orchestra filarmonica di Berlino, un tempio della musica a livello mondiale ed era diventata un emblema della città. La caratteristica della sala è che, al posto della classica visione frontale del gruppo musicale, l’Architetto Scharoun mise l’orchestra al centro della sala. Per un giovane musicista trovarsi circondato dal pubblico era già di per sé emozionante, immaginate in un’occasione del genere. Amelie e il suo quintetto avevano il cuore in gola, le mani fredde e sudaticce e una gran voglia di essere altrove. Questo fino a un secondo prima di varcare la soglia del palco. Amelie aveva un bellissimo abito blu scuro di taffetas, i suoi colleghi rigorosamente in smoking neri e papillon. Percorsero quei pochi metri per raggiungere gli strumenti accompagnati dagli applausi d’incoraggiamento del pubblico. Non avevano il coraggio di alzare gli occhi, tutti concentrati sui loro strumenti. E fu una esibizione perfetta, fecero per ultimo il brano sconosciuto che Amelie aveva chiamato “le ultime note” perché erano quelle che mancavano e che forse chi l’aveva composto non avrebbe mai potuto aggiungere.
Al termine del brano ci fu un istante infinito di silenzio, poi l’auditorium esplose in un applauso che sembrava non finire mai. In quel momento alzarono lo sguardo verso la platea e rimasero a bocca aperta nel vedere il pubblico in piedi che batteva le mani entusiasta. Uscirono in fila con lo sguardo a terra increduli di quello che stava accadendo. Rientrarono nel camerino che era stato loro destinato e, appena chiusa la porta, lanciarono un urlo di liberazione abbracciandosi e saltando come ragazzini. Dopo alcuni minuti, qualcuno bussò alla porta e Hans andò ad aprire. Quale fu lo stupore quando si trovò di fronte il Direttore del Conservatorio in persona. Era un uomo alto e magro con una chioma bianca che faceva ricordare quella di Von Karajan, noto per i suoi modi un po’ bruschi, ma sempre pronto a sostenere gli allievi più meritevoli.
– Buonasera ragazzi, ottima esibizione, ma non sono qui per farvi i complimenti che certamente meritate, ma perché un mio carissimo amico ha chiesto chi è di voi che ha composto l’ultimo brano – disse, pragmatico come al solito. Si fece avanti Amelie e timidamente rispose:
– Maestro, in realtà non sappiamo chi sia l’autore, io l’ho solo completato e arrangiato per i nostri strumenti. Ho trovato lo spartito in modo un po’ rocambolesco e ho cercato in tutti i modi di scoprire di chi fosse, ma senza successo –
– Bene signorina, vuol venire un secondo con me, il mio amico le vuole parlare – disse il Direttore.
Uscirono dalla stanza e, percorso un lungo corridoio, giunsero dove erano i camerini riservati ai direttori d’orchestra. Il Direttore aprì la porta di uno di questi e invitò Amelie a entrare. Seduto su una poltrona in un angolo stava Viktor Spilman. Completo scuro, una sciarpa di seta intorno al collo, capelli brizzolati, fisico asciutto e scattante ad onta della sua età, doveva avere circa sessantacinque anni. Amelie rimase senza fiato per l’emozione quando il Maestro Spilman si alzò e accennò un baciamano. Diventò tutta rossa e sentì le gote prendere fuoco, poi un improvviso timore di aver fatto qualcosa di sbagliato, il brano forse era del Maestro, aveva fatto un plagio o peggio. Mille pensieri le turbinarono nella testa.
– Signorina, le faccio i miei complimenti, una bellissima esibizione, ottimi arrangiamenti e si vede che il pianoforte è il suo futuro, però avrei una domanda da farle, chi ha composto l’ultimo brano? – nel fare questa domanda non nascose una certa tensione, come un’emozione forte che teneva sotto controllo.
– Maestro, la ringrazio per i complimenti sono veramente lusingata e, le confesso, confusa di riceverli da un musicista eccezionale come lei. Come ho detto poco fa al Direttore, non conosco l’autore del brano, ho cercato in tutti i modi di scoprirlo ma invano. Ho trovato uno spartito, manoscritto, pieno di appunti al margine sulla sua esecuzione, nel pianoforte che mi ha regalato mia madre. Doveva essere del vecchio proprietario ma non so chi sia – rispose Amelie un po’ timorosa.
Gli occhi del Maestro si colmarono di lacrime
– È forse un pianoforte in radica di noce di metà Ottocento? Un Wilhelm Spaethe se non ricordo male – disse con la voce rotta dall’emozione.
– Sì, effettivamente è così, conosce quel pianoforte? – rispose Amelie incredula. Il Direttore assisteva alla scena in un angolo certo di trovarsi di fronte a qualcosa di molto speciale e intimo che non voleva disturbare.
– Era il pianoforte di mio padre – disse Spilman, cercando il bracciolo della poltrona con una mano perché, per l’emozione, non riusciva a rimanere in equilibrio.
Vedendo il suo amico in grande difficoltà intervenne il Direttore per consentirgli di riprendersi e per risparmiargli un racconto doloroso.
– Ladislao Spilman, il padre del Maestro che è ora qui con noi, è stato un grande musicista tedesco di questo secolo. Dedicò la sua vita alla musica: studiò prima all’Accademia Chopin di Varsavia, poi all’Accademia delle Arti di Berlino. Terminati gli studi tornò a Varsavia, dove intraprese una carriera di successo come pianista e compositore. Ladislao e la sua famiglia erano ebrei di origine polacca e vissero durante gli anni delle persecuzioni naziste. Spilman fu relegato nel ghetto ebraico, dove erano rinchiuse migliaia di persone, che spesso venivano trasferite dal ghetto ai campi di concentramento. Durante questi anni Ladislao non smise comunque di suonare, lavorando come pianista. Come accadde a molte famiglie che vivevano nel ghetto, lui e la sua famiglia furono scelti per essere trasferiti nel campo di concentramento di Treblinka, in Polonia, ma fu la musica a salvare Ladislao da questo destino. Un poliziotto del ghetto riconobbe Ladislao dopo averlo visto suonare in uno dei suoi concerti e decise di non farlo salire sul treno che lo avrebbe condotto a Treblinka. Ladislao chiese che venisse risparmiata anche la sua famiglia, ma riuscì a ottenere che solo la moglie e il figlio potessero rimanere con lui. Il resto della famiglia, composta dai suoi genitori, un fratello e due sorelle, fu però deportata e nessuno di loro sopravvisse al campo di concentramento. Ladislao continuò a vivere nel ghetto ebraico fino al 1943, quando la loro casa venne distrutta durante un bombardamento, per poi vivere nascosto, insieme alla moglie e il figlio, in vari luoghi di Berlino spostandosi nella parte Ovest della città. Riuscirono così a sopravvivere fino all’arrivo delle truppe Alleate. Dopo tante peripezie, si imbarcarono su un piroscafo per gli Stati Uniti e lì trovarono finalmente un po’ di pace. Che purtroppo non durò molto per Ladislao; sfinito per gli stenti di quegli anni morì appena un anno dopo. Quello che ha lei, signorina, è il pianoforte di Ladislao, e quella musica, certamente è la sua– concluse il Direttore.
Viktor era rimasto in silenzio, appoggiato alla poltrona con gli occhi persi nel vuoto, probabilmente stava rivivendo quegli anni terribili, e disse:
– Io sono nato nel 1933, quel brano lo aveva composto mio padre per la mia nascita. Mia madre, anche in seguito, me ne parlò e da piccolo lo avevo sentito suonare spesso tanto che mi era entrato nella memoria, come un sottofondo alla vita di quegli anni. Io non capivo bene quello che stava succedendo, ricordo solo che lui nascondeva gli spartiti nel pianoforte perché, molto spesso, le camicie grigie facevano irruzione nella nostra casa e con un qualsiasi pretesto distruggevano tutti i suoi libri e spartiti. Il brano esprime tutta l’angoscia e il timore di mio padre, per aver messo al mondo un figlio da un futuro così incerto. Mi ricordo poi la sua disperazione, quando la nostra casa venne bombardata e il pianoforte rimase sotto le macerie. Ora so che esiste ancora, è come se ci fosse l’anima di Ladislao in quello strumento, è come se quelle note che lui ha scritto come un atto d’amore, la nascita di un figlio, avessero sconfitto la barbarie e l’orrore – disse tutto d’un fiato Viktor – signorina, lei mi ha reso la più bella eredità di mio padre. Quando ho sentito suonare questo brano, improvvisamente la melodia, che era sepolta in un angolo della memoria, mi è tornata in mente come allora, come quando avevo meno di dieci anni. La musica è eterna e sopravvivrà ai disastri dell’uomo anche grazie a lei, ai suoi colleghi e a tutti quegli artisti che diranno no alle dittature e all’oppressione. Permetta che l’abbracci! –
Fuori dalla porta si sentirono gli applausi del pubblico per un’altra esibizione. Altra musica, altre melodie, altri musicisti, altro pubblico, altre emozioni.
Non ci sono barriere né gabbie e non c’è prigione, che possa rinchiudere le note, libere, di uno strumento.
F.L.
Non riesco ad esprimere con le parole quello che ho provato s leggere il racconto…basta un abbbraccio forte
La ringrazio, provocare emozioni è l’obiettivo principale di ciò che scrivo. Se poi anche il messaggio etico arriva ho raggiunto il mio scopo. Il racconto prende spunto da una storia vera quella di Władysław Szpilman. Nella Varsavia occupata dai tedeschi, un capitano della Wermacht appassionato di musica non denuncerà e proteggerà Szpilman, salvando lui e la sua famiglia dal campo di concentramento. Il resto del racconto è opera di fantasia.
Ricambio l’abbraccio, soprattutto in questo momento di sconcerto, di fronte alla nuova barbarie, che non è solo nei carri armati di Putin, ma anche in chi, da mesi, lascia morire al gelo donne, uomini e bambini nell’indifferenza generale.
Flavio
Mi hai evocato tante cose, gli odori della bottega dei fratelli Bontempi, in via Giovanni Lanza, vicino a Ingegneria, dove un mio amico pianista si fece restaurare un vecchio pianoforte, mezzo tono più in basso come nel racconto. Mi hai fatto risuonare e vibrare come le casse di quei violini. Mi hai ricordato le estenuanti trattative di mia madre coi commercianti ebrei dell’Esquilino, dove da piccolo abitavo. Soprattutto, m’hai fatto bagnare gli occhi nel finale, non mi capitava da tanto. Grazie
Caro Fabio, quel pianoforte esiste realmente ed è stato restaurato proprio nella bottega dei fratelli Bontempi, in via Giovanni Lanza. Era poco più di un rudere, viene da un albergo bombardato di Berlino, i fratelli Bompiani fecero un miracolo, il resto della storia è tutto inventato anche se ho preso spunto dalla vicenda umana di Władysław Szpilman.
Come dice Lello nel film “Ricomincio da tre”:” Voi scrittori non vi inventate niente, è tutto vero…”
Un abbraccio e grazie per le tue parole